Chi è l’artista?
Perché, oggi, si arriva a definire “artista” chi vince un programma televisivo di talento canoro?
O una qualsiasi popstar costruita a tavolino?
O un qualsiasi “caso letterario”, di solito femminile e minorenne e pruriginoso?
Ogni mestierante, ogni artigiano, ogni interprete, chiunque dimostri di essere sufficientemente tormentato (e di prendersi molto sul serio), oggi ha la patente di artista.
L’impressione è che “artista” sia oggi una parola usata con molta leggerezza. Se non abusata.
Però non accusatemi subito di snobismo, perché il mio criterio di discrimine non ha niente a che vedere con la qualità.
Il mio discorso è esistenziale.
Tutti sentiamo in noi qualche pulsione che definiamo “artistica”. Nessuno escluso.
Chiedete agli insospettabili. Perfino il mio ex macellaio Fernando, l’essere umano più rozzo che mi sia stato dato incontrare, andava in estasi per la sua collezione di boccali da birra. Collezionare era la sua arte.
Ognuno è disposto a concedere l’esistenza della Bellezza e ognuno coltiva qualche sua forma di estetismo. Si dice che il CSS è un’arte, ed è vero. Tanti programmatori si emozionano per un bel codice e ci vedono, sicuramente, qualcosa di artistico. La ricerca dell’arte intesa come tensione al Bello è in noi.
Diverso è, al massimo, il nostro grado di consapevolezza.
Per consapevolezza non intendo la raffinatezza. Intendo il rendersi conto di avere un impulso al bello che può declinarsi in qualche espressione.
Chi in questa vita può studiare, viaggiare, fare esperienze, spesso accresce il proprio livello di consapevolezza. E spesso, per il fatto di conoscere meglio la storia dell’arte, si sente più artista degli altri. Invece è solo più raffinato.
Chi è dispensato, grazie alla ricchezza, dalle grettezze della vita quotidiana, si sente spesso un prescelto. Crede di potersi, di doversi anzi, dedicare ai propri impulsi artistici. Quanti gentiluomini annoiati si davano, e si danno, all’arte, per passatempo e capriccio. Eppure erano e sono in buona fede, credono davvero di essere artisti, esteti, anime particolarmente sensibili e tormentate, un gradino sopra agli altri.
Ma l’arte ci mette un gradino sotto, non sopra. Cercare di sublimare la vita attraverso espressioni artistiche è una forma di fuga –comprensibile- dalla incomprensibile realtà. L’ho sempre pensato: l’artista è qualcuno che non sa vivere, felicità terrena e arte sono incompatibili. L’arte ti abita come un demone, ti spossessa del tuo corpo e ti spinge alla follia, al martirio. A prescindere dalla grandezza, dalla bellezza del risultato raggiunto, i veri artisti confermano lo stereotipo di essere persone “mezze matte”, perché hanno preso, consapevolmente, una distanza dalla vita.
Non serve ricordare gli artisti morti giovani, pazzi, suicidi eccetera. Anche chi non si è spinto verso le conseguenze più estreme dell’alienazione era un alienato. E ripeto: tutto questo indipendentemente dalla grandezza/bellezza del risultato raggiunto.
Bisogna scegliere se essere felici o essere artisti. Se essere nella vita o essere nell’arte. L’arte vuole ben piu’che dedizione. Vuole tutto il nostro essere. La convenzionalità non porta alla sua strada. E nemmeno il dolore, per quanto grande, se è convenzionale. E’ l’atteggiamento, il distacco dalla convenzione con cui siamo immersi nell’esistenza, che stabiliscono il primo passo. E non escludo che molti l’abbiano fatto quel passo, e poi, sconvolti, siano tornati indietro.
Ma oggi chiamiamo “artista” qualcuno che vince un programma come X Factor. Cioè il contrario di un alienato: un superintegrato, una persona che ha un dimostrabile successo, un vincente. Tecnologia e cultura hanno formato l’impressione che l’arte sia alla portata di tutti, raggiungibile senza fatica: tutti fotografi con Instagram (vedi l’ottimo articolo di Piero Vietti), tutti dj con Tractor, tutti scrittori con un laptop e un blog, tutti modelli con Photoshop, tutti registi con una Canon 5D e un Final Cut craccato. (Se non c’è una tensione collettiva a esser tutti pittori, è solo perché la pittura in questo momento storico non è trendy).
Dico raggiungibile “senza fatica” e non parlo banalmente degli sforzi per la padronanza della tecnica. Perché puo’ anche darsi che qualcuno, appassionandosi con Instamatic, si metta a studiare fotografia seriamente, e la conquisti, la tecnica. Puo’ anche darsi che qualcuno che non avrebbe mai posseduto una macchina da scrivere -figuriamoci imparato a usarla- scopra, picchiettando le dita in Word, una vena letteraria. La fatica di cui parlo è il sacrificio consapevole. Quanti si lasceranno realmente conquistare dal demone? Quanti avranno il coraggio di seguire quella voce fino in fondo?
Chi preferirà perdersi nel proprio trip rinunciando, se il caso, anche alle luci della ribalta?
Per definirsi artisti, sentirsi “fuori posto” aiuta, ma non basta. Fuori posto bisogna proprio starci, non solo sentircisi. Anche sentirsi “incompresi” è un buon inizio e un buon indizio. Abbracciare l’incomprensione della maggior parte degli uomini, accettarla come pedaggio dell’esser nati in questo mondo, è il passo successivo.
L’arte è esclusivista. Vuole che ci si chiuda a chiave dentro di lei. Stabilisce un confine tra l’artista e il mondo, un confine invalicabile, una soglia da cui non si torna.
L’arte chiede all’artista un sacrificio immane. L’arte puo’ anche essere una vocazione, ma è –comunque- una scelta. Non credo all’inevitabilità dell’arte. Anche Van Gogh e Ian Curtis avrebbero potuto salvarsi, tirarsi indietro.
L’artista si immola per l’umanità. L’artista va trattato con rispetto. Di lui dobbiamo essere orgogliosi. Ha avuto un coraggio che pochi hanno davvero: allontanarsi di un passo per riunirci tutti nel suo sguardo.
L’artista è colui che più di tutti merita onori e successo perché a lui onori e successo sono indifferenti. A lui interessa solo una cosa: l’arte per cui vive.
A tutti gli altri, a quelli che lo fanno per passatempo e in buona fede, e che di solito hanno più successo degli artisti veri, va tutta la mia comprensione. Ma non la mia stima.